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Beni destinati all’esercizio di impresa e scioglimento della comunione coniugale. Diritto di credito del coniuge non imprenditore.

Maggio 27, 2022

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ., SS.UU. 17/05/2022, n. 15889) si sono recentemente pronunciate sul tema delle sorti dell’impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi – costituita dopo il matrimonio e ricadente nella cosiddetta comunione de residuo (ovvero la comunione nella quale rientrano quei beni che non fanno parte della comunione dei coniugi fintantoché, marito e moglie, restano spostati ma che, viceversa, devono essere divisi non appena questi ultimi si separano) – al momento dello scioglimento della comunione legale. Sul punto, i Giudici di legittimità hanno sostenuto che all’altro coniuge non imprenditore spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, e al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data. La controversia di merito avente ad oggetto il decisum reso dalla Suprema Corte ha riguardato il caso di una moglie che ha convenuto in giudizio l’ex marito con il quale ha costituito, in costanza di matrimonio, una società per il commercio di macchine industriali, della quale era essa stessa socia (seppure per una quota di partecipazione sociale inferiore a quella del coniuge). Nel corso del tempo, infatti, i coniugi avevano acquistato plurimi beni immobili, tanto che, a seguito dell’intervenuta pronuncia di separazione giudiziale ad opera del Tribunale di primo grado, si sarebbe dovuta – ad avviso della moglie – ritenere sciolta la comunione legale, con la conseguenza che gli immobili acquistati erano da considerarsi caduti “ipso iure” (con conseguente diritto di comproprietà di quest’ultima sui medesimi e su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%). Non solo. Facendo riferimento all’art. 178 del Codice civile – secondo il quale i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, nonché gli incrementi, si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento -, la moglie ha sostenuto di essere altresì comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge, ivi compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature, nonché di qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente all’atto dello scioglimento della comunione, oltre che delle quote della società. Cosicché, sulla base di tale premessa, la moglie ha chiesto la divisione di tutti i beni aziendali intestati al marito, nonché l’accertamento degli utili dal medesimo percepiti e percipiendi, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati successivamente all’intervenuto scioglimento della comunione legale. Il marito, costituitosi in giudizio, ha resistito all’avversa domanda promossa dalla moglie, invocandone il rigetto ed eccependo altresì l’avvenuto acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali, e delle costruzioni su di essi insistenti. Quest’ultimo, inoltre, ha dedotto che ove fosse stata condivisa dal Giudice di merito la prospettazione avversaria, occorreva tener conto che l’azienda da lui esercitata, fin dal momento dello scioglimento della comunione legale, presentava un’esposizione per passività ammontante a circa quattrocento milioni di lire e che, anche sulla proprietà dei beni immobili acquistati, pendeva una posizione debitoria di cento milioni di lire. Sulla base di tale esposizione dei fatti, il marito ha chiesto, quindi, la condanna della moglie al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi. All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito, con sentenza non definitiva, ha dichiarato l’attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, dovendosi applicare nella fattispecie, il disposto dell’art. 178 del Codice civile, rigettando la domanda riconvenzionale di usucapione formulata dal convenuto, difettandone i relativi presupposti. Con la suddetta sentenza, il Tribunale ha disposto poi la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali (nel corso della quale sono state emesse altre due sentenze non definitive) fino alla sentenza definitiva con la quale è stato approvato, poi, il progetto divisionale dei beni. Avverso tutte le sentenze (quelle non definitive e quella definitiva) ha spiegato appello il marito (resistito con ricorso incidentale dalla moglie), di modo che la Corte di merito, non definitivamente pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado ha dichiarato, per effetto dello scioglimento della comunione “de residuo”, la titolarità in capo alla moglie di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale dal marito, durante il matrimonio, e non una situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla medesima comunione. Le Sezioni Unite, allora, investite della questione di massima importanza concernente la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa, ex art. 178 del Codice civile, e dirette ad accertare se, quest’ultimo, si riferisca ad un diritto reale ovvero ad un diritto di credito, una volta analizzata la dottrina e giurisprudenza recante il favore per l’una o per l’altra delle due rispettive tesi, ha optato a favore della natura obbligatoria dei beni in comunione de residuo, giacché tutelante le esigenze dell’impresa, sia dal lato del coniuge imprenditore che da quello dei creditori dell’impresa. Se appare legittimo, hanno sostenuto i Giudici di legittimità, rendere il coniuge non imprenditore partecipe degli eventuali vantaggi ed incrementi prodotti dall’attività dell’altro coniuge, quale contropartita del diverso apporto del primo al regime familiare, la nascita di una comunione ordinaria rischia tuttavia di vanificare in toto l’impegno in precedenza profuso dal secondo. Le regole gestorie della comunione, poi, finiscono per imporre che ogni scelta relativa ai beni aziendali non possa prescindere dal consenso dell’altro comunista, con il rischio di addivenire alla paralisi dell’attività imprenditoriale. Inoltre, ove all’esito della divisione, i beni comuni si rivelino non comodamente divisibili, gli stessi, in assenza della previsione di una causa di prelazione a favore del coniuge imprenditore, come invece previsto dall’art. 230 bis del Codice civile per l’impresa familiare, possono essere anche assegnati al coniuge non imprenditore – nel caso in cui nessuno dei condividenti ne faccia richiesta di attribuzione – e/o essere alienati a terzi ex art. 720 del Codice civile (nel caso, appunto, di immobili non divisibili), con conseguente rischio di dissolvimento dell’impresa. Tutto ciò, senza considerare – ha proseguito ancora la Suprema Corte – le esigenze di tutela dei creditori dell’impresa, i quali, hanno fatto affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore e che, appena intervenuto lo scioglimento della comunione legale, rischiano di vedere la garanzia patrimoniale del loro credito ridotta del 50%, in ragione della insorgenza del diritto di comproprietà in favore del coniuge non imprenditore; analoga difficoltà che si pone anche nel caso in cui, lo scioglimento della comunione legale, sia determinato dal fallimento del coniuge imprenditore posto che, in tal caso, nell’attivo fallimentare sarebbe inserito solo il 50 % dell’azienda, essendo evidentemente compromessa o fortemente impedita ogni possibilità di prosecuzione dell’attività in pendenza della procedura concorsuale (dato che quest’ultima sarebbe tenuta a fare i conti con la concorrente contitolarità e gestione spettante al coniuge non imprenditore). Su tali basi e anche in considerazione della normativa codicistica in materia, le Sezioni Unite della Corte hanno deciso di prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti, dei proventi e dell’autonomia gestionale (quanto all’impresa) in capo all’altro coniuge (nelle ipotesi previste dall’art. 178 del Codice civile), evitando un pregiudizio per le ragioni dei creditori e consentendo così la sopravvivenza dell’attività imprenditoriale, senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.



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Ritardato pagamento e applicazione di interessi moratori prescritti dal D.Lgs. n. 231/2002: nozione di transazione commerciale comprendente tutte le prestazioni di servizio (ivi incluso il contratto di agenzia).

Maggio 10, 2022

La Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. II^, Ordinanza, 31/03/2022, n. 10528) è intervenuta in tema di interessi moratori applicabili nelle transazioni commerciali e dovuti a ritardato pagamento, di cui all’articolo 2 del D.Lgs. n. 231 del 2002, affermando che nella nozione di “transazione commerciale” (intesa quale contratto di scambio che opera la creazione o la circolazione della ricchezza, stipulato da soggetti qualificati e caratterizzato dal pagamento di un prezzo), devono essere ricomprese tutte le prestazioni di servizio, non avendo la suddetta norma introdotto un nuovo tipo contrattuale ma solo riassunto il “genus” dei contratti ai quali si applica, tra i quali deve essere ricompreso, pertanto, anche il contratto di agenzia. Nel caso specifico sottoposto al vaglio dei Giudici di legittimità, un agente aveva convenuto in giudizio la compagnia assicurativa preponente chiedendole il pagamento dell’indennità di mancato preavviso previsto dall’accordo economico collettivo di settore, nonché talune somme aggiuntive previste dallo stesso, giacché quest’ultima aveva receduto senza motivazione dal contratto di agenzia inter partes. Il Giudice di primo grado, allora, aveva accolto la domanda dell’agente, applicando sulla somma a quest’ultimo riconosciuta in sorte capitale anche gli interessi al tasso di cui al D.Lgs. n. 231/2002. La società assicurativa, una volta spiegato appello, aveva vista accolta dalla Corte territoriale di merito – in parziale accoglimento dell’azionato gravame -, l’eccezione secondo cui sulle somme spettanti all’agente non potevano essere riconosciuti gli interessi moratori come determinati dal Giudice di primo grado. La Corte di Appello, infatti, deduceva che la norma recante l’applicazione di detti interessi si applicava alle somme dovute unicamente a titolo di corrispettivo per una transazione commerciale, mentre, viceversa, l’attività negoziale svolta dall’agente non poteva essere qualificata come prestazione di servizi, in quanto, quest’ultimo, promuove contratti per conto e talvolta anche in nome del preponente, ma senza offrire alcun servizio. La Suprema Corte, investita del ricorso promosso dall’agente, ha ritenuto censurabile l’affermazione del Giudice del gravame secondo cui, il contratto di agenzia, esulerebbe dal novero delle operazioni contrattuali suscettibili di rientrare nella nozione di “transazione commerciale” – poiché non costituente una prestazione di servizi – in quanto, “in assenza di espresse limitazioni” di cui all’articolo 2 del D.Lgs. 231/2002, l’anzidetta nozione “deve essere intesa come ricomprendente tutte le prestazioni di servizio”, e tra queste non possono non includersi anche quelle offerte dall’agente assicurativo in favore della compagnia preponente, tramite l’esercitata attività di promozione e intermediazione del prodotto assicurativo. Ciò che rileva, hanno aggiunto ancora i Giudici di legittimità, è che il pagamento venga effettuato nel contesto di una «transazione commerciale», caratterizzata dalla presenza di prestazioni consistenti, anche non esclusivamente, purché prevalentemente aventi ad oggetto la consegna di merci o la prestazione di servizi. Di modo che il termine “transazione commerciale” – usato evidentemente in senso diverso dalla nozione tecnica di transazione di cui agli articoli 1965 e seguenti del Codice civile – non introduce un nuovo tipo contrattuale, ma indica soltanto l’ambito di applicazione della disciplina, riassumendo il genus dei contratti ai quali quest’ultima si applica.

Annullabilità del contratto per vizi del consenso (violenza morale). Necessità di una minaccia proveniente dall’esterno e condizionante il consenso del contraente. Esclusione di timori interni o valutazioni di convenienza.

Maggio 9, 2022

La Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. II^, Ordinanza, 13/04/2022, n. 12058) è recentemente intervenuta in materia di annullamento del contratto per vizi della volontà, affermando che si verifica un’ipotesi di violenza invalidante il negozio giuridico, qualora uno dei contraenti subisca una minaccia direttamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dalla controparte contrattuale o da un terzo, di natura tale da influire, con efficacia causale, sul determinismo del soggetto passivo che, in assenza della superiore minaccia, non avrebbe concluso il medesimo negozio. Tutto ciò, con l’evidente conseguenza che il contratto non potrà essere annullato ai sensi dell’articolo 1434 del Codice civile (“Annullabilità per violenza”), ove la determinazione del contraente sia stata determinata da un’apprensione meramente interna ovvero da personali valutazioni di convenienza, e cioè senza che l’oggettività del pregiudizio risulti idonea a condizionare un libero processo determinativo delle scelte compiute dal contraente. Nel caso affrontato dai Giudici di legittimità, la Corte territoriale di merito aveva ritenuto di confermare la sentenza di primo grado, ritenendo infondata l’impugnativa avente ad oggetto un lodo arbitrale riferito ad una pretesa annullabilità di un contratto contenente una clausola compromissoria per vizio del consenso, in quanto, sfornita di “adeguato conforto probatorio”, non essendo emersi univoci elementi di prova – soprattutto in virtù degli esiti testimoniali – riscontranti la dedotta violenza morale (avente i caratteri previsti dall’articolo 1435 del Codice Civile), che si prospettava esercitata nei confronti del legale rappresentante di una delle società contraenti, in occasione della sottoscrizione del negozio contrattuale in questione. La Suprema Corte, ripercorrendo le valutazioni compiute dalla Corte territoriale di merito – insindacabili in sede di legittimità – ha evidenziato come il giudice di appello, correttamente e pur volendo ipotizzare una qualche pressione esercitata in occasione della stipula contrattuale, non poteva ricondurla propriamente ad una condotta concretante una violenza morale, specificando che il contraente ritenutosi vittima della stessa non aveva neppure provveduto ad indicare gli argomenti o i comportamenti impiegati dalla controparte, idonei a rendere una possibile minaccia concretamente attuabile e credibile, nonché, in quanto tale, capace di costringere univocamente ed in modo determinante alla sottoscrizione contrattuale. In tal senso, quindi, la Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza di una violenza morale, poiché da un punto di vista generale, risulta pacifico che in materia di annullamento contrattuale per vizi della volontà, si palesa accertabile la sussistenza della violenza invalidante il negozio giuridico, quando uno dei contraenti risulti concretamente vittima di una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto. Di modo che, ove la determinazione della parte contraente sia stata determinata da timori meramente interni o da impressionabilità o da preoccupazione meramente soggettive, ovvero da personali valutazioni di convenienza, tali elementi non risultano inequivocabilmente idonei a condizionare il libero processo determinativo delle scelte e non può quindi parlarsi di una violenza morale implicante l’annullabilità del contratto.

Contrassegno invalidi e circolazione nelle ZTL. Validità su tutto il territorio nazionale ed esclusione delle sanzioni elevate e connesse a difficoltà organizzative dell’ente territoriale di transito.

Maggio 6, 2022

La Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. 6^ – 2, Ordinanza, 14/03/2022, n. 8226) si è recentemente espressa in tema di “contrassegno invalidi” (rilasciato alla persona disabile in modo che questa se ne possa servire esponendolo su qualsiasi veicolo adibito in quel momento al suo servizio di trasporto, con conseguente autorizzazione alla circolazione e alla sosta anche all’interno delle zone urbane a traffico limitato e delle aree pedonali urbane), ha sostenuto che la sua validità non è limitata ad un veicolo in particolare, né tantomeno può essere circoscritta al territorio del Comune che abbia rilasciato tale contrassegno ma, viceversa, è estesa a tutto il territorio nazionale. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che tale autorizzazione non può trovare ostacoli nelle difficoltà organizzative dell’ente territoriale di transito diverso da quello che l’ha rilasciata, giacché lo stesso non può porre limitazioni non prescritte per legge alla sua validità. Nel caso sottoposto al vaglio dei Giudici di legittimità, infatti, il Giudice di Pace aveva rigettato l’opposizione alla sanzione amministrativa comminata – dalla Polizia Locale del Comune di transito – nei confronti dell’intestatario dell’autoveicolo che trasportava una persona con capacità di deambulazione sensibilmente ridotte (poiché quest’ultimo era stato registrato da apposito sistema automatico e visto transitare nella corsia riservata ai mezzi pubblici). Il Tribunale, poi, aveva rigettato la successiva impugnazione promossa dall’intestatario del veicolo sanzionato, atteso che, a suo dire, a nulla rilevava l’eccepita circostanza della presenza del disabile a bordo e dell’esposizione del relativo contrassegno, in quanto, tali elementi, non giustificavano comunque la circolazione in area interdetta, dovendo essere cura della persona autorizzata fare previa comunicazione di un tale suo diritto al Comune di transito (diverso da quello che aveva rilasciato l’autorizzazione). La Corte di Cassazione, nonostante ciò, ha invece ritenuto le doglianze sollevate dal ricorrente/sanzionato manifestamente fondate, sia alla luce delle disposizioni contenute negli articoli 11 e 12 del D.P.R. n. 610/1996 e nell’art. 381, comma secondo, del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice stradale, di cui al D.P.R. n. 495/1992, che altresì con riferimento all’orientamento espresso nel tempo dai medesimi Giudici di legittimità, secondo cui l’autorizzazione in parola – diretta a ridurre il più possibile impedimenti deambulatori delle persone portatrici di disabilità – non può trovare ostacoli generati dalle difficoltà organizzative dell’ente territoriale di transito. Di modo che ove il controllo automatico sia stato effettuato in maniera tale da non essere in grado di rilevare la presenza del contrassegno invalidi esposto sul cruscotto, l’ente accertatore dovrà destinare apposite modalità di accertamento – nella logica della leale collaborazione con l’utente della strada -, se del caso contattando previamente l’intestatario del veicolo rilevato dal sistema automatico ed evitando così di elevare verbali sul presupposto erroneo che la circolazione non fosse autorizzata. Secondo il ragionamento logico – giuridico degli Ermellini, difatti, non può frapporsi un ostacolo alla libertà di locomozione della persona disabile fondato sull’addotta inadeguatezza del sistema di controllo automatizzato dell’ente locale territoriale, pervertendo così lo scopo che la legge si prefigge (semmai, hanno sostenuto ancora i Giudici della Corte, si tratterebbe di adeguare i sistemi automatizzati alla fattispecie concreta, sperimentando meccanismi di verifica automatizzata del contrassegno esposto sul parabrezza, atteso che trattasi di accertamenti e verifiche di merito in ordine alla correttezza del transito, di competenza dell’ente accertatore e il cui esito non può porsi presuntivamente a carico del soggetto autorizzato alla circolazione).

Danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. Insussistenza di una duplicazione risarcitoria tra la lesione inferta all’integrità del nucleo affettivo e il danno alla salute.

Maggio 4, 2022

La Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. III^, Ordinanza, 28/03/2022, n. 9857) intervenuta sul tema della contestuale liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale (incidente sulla conservazione dell’equilibrio emotivo-soggettivo del danneggiato e, in una dimensione dinamico-relazionale, sull’impedita prosecuzione concreta di una relazione personale) e di un ulteriore importo a titolo di risarcimento del danno biologico (quale pregiudizio arrecato all’integrità psicofisica per l’uccisione del congiunto), ha affermato che tale congiunta liquidazione non costituisce una duplicazione risarcitoria, trattandosi di voci di danno tra loro diverse e derivanti da una lesione di beni che sono logicamente ed ontologicamente distinti tra loro e che trovano il proprio riferimento, rispettivamente, nell’art. 29 e nell’art. 32 della Costituzione. Nel caso affrontato dai Giudici di legittimità, la Corte territoriale di merito aveva rilevato una duplicazione risarcitoria compiuta dal Giudice di prime cure, il quale, a suo dire, aveva riconosciuto ai congiunti, contestualmente e da un lato, sia una personalizzazione del danno da perdita del rapporto parentale, in ragione delle relative conseguenze sulla persona dei danneggiati, che, dall’altro, un separato importo a titolo di danno biologico (costituito dal pregiudizio immediatamente e direttamente derivante dall’intervenuta perdita del figlio). I congiunti, allora, hanno promosso ricorso per cassazione innanzi alla Suprema Corte, censurando la sentenza impugnata, giacché il ragionamento logico – giuridico compiuto dalla Corte di Appello si esplicava in una motivazione del tutto apparente a fondamento della sostenuta duplicazione risarcitoria. Sul punto, la Cassazione ha precisato come, il danno derivante dalla perdita di un rapporto parentale, chieda di essere identificato nell’insieme di quelle specifiche conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, che discendono dalla definitiva cancellazione di una relazione personale caratterizzata dalla particolare pregnanza emotiva ed implicazione affettiva (come appunto, nella specie, il rapporto tra genitore e figlio). In tal senso, un danno destinato a tradursi, sul piano dei pregiudizi arrecati alla persona, nella duplice dimensione del cosiddetto danno morale, ossia quella sofferenza puramente interiore, patita dal danneggiato, sia per la perdita affettiva riscontrabile sul piano dell’afflizione e della compromissione dell’ordinario equilibrio emotivo (senza tuttavia alcuna degenerazione patologica suscettibile di accertamento medico-legale), che per la modificazione delle consuete attività della vita quotidiana e degli eventuali aspetti dinamico-relazionali, in conseguenza di tale perdita affettiva. In altre parole, un danno non patrimoniale consistente pur sempre e comunque in conseguenze dannose riferibili alla compromissione di quello specifico interesse legato alla conservazione dell’integrità del proprio nucleo familiare e/o affettivo. Differente il discorso condotto con riferimento al danno biologico determinato dall’uccisione di un proprio congiunto, il quale, sul piano morale e su quello legato alle implicazioni di tipo dinamico-relazionali, si riferisce, invece, alla conservazione dell’integrità della propria salute, e che, quindi, non può che essere ritenuto logicamente e ontologicamente diverso dal primo. Proprio in base alle superiori considerazioni, i Giudici di legittimità, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale di merito, hanno ritenuto corretto che il Giudice di primo grado, una volta liquidato il danno derivato ai congiunti dalla morte del figlio, sotto il profilo della perdita del rapporto parentale (incidente, tanto sulla conservazione del proprio equilibrio emotivo-soggettivo, quanto sull’impedita prosecuzione concreta di una relazione personale valutabile sul terreno della dimensione dinamico-relazionale), avesse deciso altresì di liquidare, a favore di questi ultimi, un ulteriore importo a titolo di risarcimento del danno biologico (necessariamente da intendere come un danno occorso alla salute degli stessi, e dunque come una lesione alla loro integrità psicofisica conseguente all’avvenuta uccisione del proprio figlio). Quanto sopra, con relativo riconoscimento dell’insussistenza di una duplicazione risarcitoria tra i due profili di danno liquidati in sentenza.

Contratto agrario e controversia relativa all’indennità spettante per miglioramenti apportati al fondo rustico azionata ex art. 2041 del Codice civile. Competenza delle sezioni specializzate agrarie.

Maggio 3, 2022

La Corte di Cassazione con recente Ordinanza (Cass. Civ., Sez. 6^- 3, 25/03/2022, n. 9781) ha stabilito il principio di diritto secondo cui la controversia concernente l’indennità spettante al conduttore per i miglioramenti apportati ad un fondo agricolo – oggetto di un contratto di affitto di azienda agricola – rientra nella competenza esclusiva delle sezioni specializzate agrarie, essendo attribuite, a detto giudice, tutte le controversie in materia di contratti agrari, sia con riferimento alla genesi del rapporto che al suo funzionamento e/o alla sua cessazione. Tutto ciò, anche laddove la domanda sia stata proposta sulla base delle norme generali del Codice civile (ovvero, nel caso specifico sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, ex art. 2041 del Codice civile), piuttosto che dell’art. 17 della Legge n. 203 del 1982 (recante le “Norme sui contratti agrari”). Quanto sopra, ha sostenuto la Cassazione, in forza della natura indennitaria, e non risarcitoria, della pretesa economica azionata, che configura un’ipotesi di responsabilità da atto lecito connessa con attività realizzate nell’esecuzione del contratto. Nel caso di specie, una società semplice agricola ha proposto ricorso per regolamento di competenza in cassazione avverso la sentenza di primo grado resa dal Tribunale ordinario, che aveva dichiarato il proprio difetto di competenza in favore della sezione specializzata agraria del medesimo Tribunale. Tale società, infatti, ha adito il Tribunale ordinario, adducendo di avere instaurato, contro la proprietà del fondo rustico, una controversia di natura extracontrattuale che non avrebbe richiesto l’accertamento dell’esistenza e/o inesistenza di un contratto agrario. Nella pendenza contrattuale, difatti, il conduttore (viticoltore) aveva apportato delle migliorie al fondo locato (cantina di circa 1500 mq con annesso impianto di fitodepurazione, un impianto enologico – elettrico, il rifacimento della strada di accesso al fondo) effettuando, a favore di quest’ultimo, ingenti investimenti economici. Pertanto, il conduttore, una volta vistosi dichiarare nullo il contratto, ha agito contro la proprietà, ex art. 2041 del Codice civile (“azione generale di arricchimento”), così da farsi restituire una parte degli investimenti effettuati in relazione al fondo locato. I Giudici di legittimità, investiti della questione, hanno rigettato il regolamento di competenza promosso dal conduttore, ritenendo la controversia ascrivibile al novero di quelle agrarie ex art. 11 del D.Lgs. n. 150/2011 (recante “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69”). Sul punto, infatti, detti Giudici hanno ulteriormente osservato che la clausola generale di cui all’art. 2041 del Codice civile (“che si oppone agli spostamenti patrimoniali non giustificati. che si risolvono cioè in un ingiustificato arricchimento di un soggetto a danno di un altro“), trova il suo fondamento nelle obbligazioni prescritte dall’art. 1173 del Codice civile (ovvero quelle che derivano “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico”), di modo che, essendo stata la pretesa azionata dal conduttore del fondo rustico una pretesa avente sostanzialmente natura indennitaria, anziché risarcitoria – non ricollegandosi affatto al principio del neminem ledere, in quanto posta in raccordo con le attività realizzate nell’esecuzione del contratto di affitto di azienda agricola, ancorché dichiarato nullo -, la medesima è riconducibile alla “controversie in materia di contratti agrari”. Ciò ritenuto, con conseguente competenza delle sezioni specializzate agrarie, atteso che, sempre secondo quanto sostenuto dalla Cassazione, anche la valutazione in ordine ai miglioramenti apportati ad un fondo (e a un’azienda) di natura agricola, richiede quell’apporto specialistico fornito dai componenti non togati della sezione specializzata agraria, che costituisce la “ratio” della competenza attribuita a quest’organo giurisdizionale.

Mediazione immobiliare e diritto alla provvigione. Rapporto causale tra l’attività svolta dal mediatore e la conclusione dell’affare.

Maggio 2, 2022

I Giudici di legittimità sono intervenuti di recente in tema di mediazione svolta dall’agente immobiliare e sul relativo diritto di quest’ultimo all’ottenimento della provvigione (Cass. Civ., Ordinanza, 08/04/2022, n. 11443), sostenendo che, detto diritto, sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, ovvero quando il mediatore abbia messo in relazione le parti così da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto di compravendita immobiliare. Tutto ciò, prosegue ancora la Corte di Cassazione, indipendentemente dall’effettivo intervento del mediatore nelle varie fasi delle trattative sino alla stipulazione del suddetto contratto, sempre che, quest’ultimo, possa ritenersi conseguenza prossima o remota dell’opera dell’intermediario tale che, senza di essa – e secondo il principio della causalità adeguata (e cioè quel principio che richiede una valutazione ex ante per il quale, affinché sussista il nesso eziologico tra l’azione e l’evento, quest’ultimo deve rientrare tra le conseguenze normali o almeno probabili dell’azione, ovvero previo accertamento del fatto che, al momento del dispiegarsi della condotta, quest’ultima costituiva un fattore di determinazione dell’evento stesso) -, il contratto stesso non si sarebbe concluso. Nell’affermare tale principio, difatti, la Suprema Corte ha dato rilievo causale all’intervento del mediatore che aveva posto in relazione i contraenti e fatto visitare l’immobile posto in vendita, nonostante che, questi ultimi, dopo alcuni mesi dalla visita ed una volta rifiutata un prima offerta di acquisto, avessero collocato dei bigliettini nelle cassette postali di tutti i condòmini, così da riaprire le trattative e giungere all’acquisto dell’unità immobiliare, sia pure per un prezzo inferiore a quello inizialmente richiesto. Secondo la Corte di merito, infatti, non esisteva un collegamento tra l’attività posta del mediatore immobiliare e il contratto stipulato tra le parti, in quanto, non risultava sufficiente la mera visita dell’appartamento per il tramite del mediatore immobiliare, giacché la proposta di acquisto non era stata accettata e l’affare si era concluso per l’iniziativa autonoma della parte acquirente. Nonostante ciò, i Giudici di legittimità hanno diversamente ritenuto che la prestazione del mediatore immobiliare può ben esaurirsi nel ritrovamento e nell’indicazione di uno dei contraenti, non essendo necessaria l’esistenza di un preventivo conferimento dell’incarico per la ricerca di un acquirente o di un venditore, atteso che risulta sufficiente, affinché sorga il diritto alla provvigione, che la parte abbia accettato l’attività del mediatore immobiliare avvantaggiandosene. Il rapporto di mediazione inteso come interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare, infatti, è configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettino anche soltanto tacitamente utilizzandone i risultati ai fini della stipula contrattuale di compravendita; di modo che, ove il rapporto di mediazione sia sorto per incarico di una delle parti, ma abbia avuto poi l’acquiescenza dell’altra, quest’ultima resta del pari vincolata verso il mediatore immobiliare al pagamento della relativa provvigione. Del resto, sempre secondo le argomentazioni giuridiche rese dalla Suprema Corte, l’iniziativa dell’inserimento dei bigliettini da parte degli acquirenti, nelle buche delle lettere dei condòmini, non ha costituito iniziativa autonoma sganciata dall’attività svolta dal mediatore, in quanto, ha comportato l’acquisto dello stesso appartamento già visitato per il tramite dell’agenzia immobiliare, la quale ha fornito un’attività rilevante, conclusasi con la formulazione della proposta di acquisto rifiutata dalla società venditrice (con la conseguenza che il diritto del mediatore alla provvigione è in rapporto causale con l’opera dal medesimo svolta). Sulla base di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso promosso dall’agenzia immobiliare e cassato la sentenza di gravame con rinvio alla Corte di merito, disponendo che quest’ultima si attenga al principio di diritto sopra enunciato.

Condominio e impianti tecnici: presupposti per l’inclusione nei beni e servizi comuni a tutti i condomini.

Aprile 28, 2022

Con riferimento al tema dei cosiddetti volumi tecnici rientranti tra le parti comuni di un edificio condominiale ai sensi dell’art. 1117 del Codice civile – ovvero quelli destinati a contenere gli impianti condominiali (come i vani ascensore, caldaia, autoclave, contatori), o riferiti altri beni comuni (come il vano scale) e/o comunque insuscettibili di separato e autonomo godimento -, la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. 6^ – 2, Ordinanza, 19/11/2021, n. 35514) ha affermato il principio di diritto secondo il quale, al fine di stabilire la condominialità o meno di questi ultimi (vincolati all’uso comune, in forza della loro naturale destinazione o della loro connessione materiale e strumentale rispetto alle singole parti dell’edificio). occorre compiutamente accertare la relazione di accessorietà ed il collegamento funzionale esistente fra gli impianti o i servizi comuni, da un lato, e le unità in proprietà esclusiva, dall’altro. In altre parole, verificando che gli stessi volumi tecnici sussistessero già al momento della nascita del Condominio, non rilevando, in tal senso, il collegamento creato solo a seguito della formazione dello stesso, dal quale potrebbe per lo più discendere, viceversa, la costituzione di una servitù a carico di una porzione di proprietà esclusiva. Nello specifico, la vicenda affrontata dalla Suprema Corte, ha riguardato il ricorso proposto da due condòmini avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello dell’Aquila che, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Sulmona, ne aveva rigettato la domanda, volta ad accertare il loro diritto di comproprietà indivisa su un locale posto al piano terra dell’edificio condominiale (costituito da un vano caldaia e vano antistante), nonché diretta a negare la condominialità di detto bene e il diritto personale e/o reale di godimento vantato da terzi sullo stesso. La Cassazione ha censurato la decisione con la quale i Giudici di merito hanno ritenuto sussistere la presunzione di condominialità (avendo accertato dapprima che i locali dove si trovano gli impianti termici e idrici rientrano fra le parti comuni e, solo di seguito, interpretando il titolo di proprietà vantato dai ricorrenti che escludeva che la “sala caldaia” fosse oggetto degli stessi), sostenendo che l’individuazione delle parti comuni operata dall’art. 1117 del Codice civile (“parti comuni dell’edificio”), non limitandosi a formulare una mera presunzione di comune appartenenza di tali beni a tutti i condòmini (vincibile con qualsiasi prova contraria), determina che, una tale presunzione, può essere superata solo dalle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla originaria formazione del Condominio e, per il suo effetto, al frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali. Cosicché, sempre secondo il ragionamento logico e giuridico espresso dai Giudici di legittimità, la decisione assunta dalla Corte di merito è risultata errata sia per aver ritenuto accertata la condominialità dei vani in contesa, senza verificare che gli stessi fossero effettivamente destinati a contenere gli impianti tecnici del fabbricato al momento della nascita del condominio (con frazionamento della proprietà dell’edificio e trasferimento delle unità immobiliari dall’originario unico proprietario ad altri soggetti), sia per aver erroneamente valutato la sussistenza di un “titolo contrario”, agli effetti della ritenuta condominialità, senza fare alcun riferimento, viceversa, all’atto costitutivo condominiale (infatti, per vincere la presunzione di condominialità, è onere dello stesso condomino rivendicante dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che, a tal fine, sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti, appunto, dell’atto costitutivo del condominio).

Risarcimento del danno da perdita di chance e onere della prova a carico del danneggiato. Necessità di dimostrare la serietà e apprezzabilità della “chance”.

Aprile 21, 2022

La Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. 6^- 3, 26/01/2022, n. 2261) in tema di risarcimento del danno da perdita di “chance” e con riferimento all’accertamento del nesso di causalità tra il fatto illecito e l’evento di danno che non sia rappresentato dalla perdita del bene della vita in sé, bensì, diversamente, dalla mera possibilità di conseguirlo, ha chiarito che una tale valutazione non è sottoposta ad un regime diverso da quello ordinario, di modo che, su quest’ultima, non influisce, in linea di principio, la misura percentuale della suddetta possibilità, della quale, invece, dev’essere provata dal danneggiato la serietà ed apprezzabilità ai fini della risarcibilità del conseguente pregiudizio. Nello specifico, il danneggiato, aveva convenuto in giudizio la società occupatasi della spedizione e recapito della raccomandata di ammissione ad un concorso per titoli ed esami, inviatagli da un’azienda ospedaliera, a causa del ritardo con la quale quest’ultima era pervenuta presso la rispettiva abitazione, impedendogli così di partecipare alla selezione. All’esito del giudizio di primo e secondo grado, il danneggiato aveva visto riconosciuto il risarcimento del danno, cosicché, avverso la sentenza di gravame aveva interposto ricorso per Cassazione la società occupatasi della spedizione e ritenuta responsabile, sostenendo che, quest’ultimo, non aveva allegato, né provato, il fatto costitutivo del probabile conseguimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (essendosi meramente limitato ad allegare la sua convocazione alle selezione, senza dedurre o dare prova, peraltro, di alcuna ripercussione negativa sulla sua attività professionale o che non avesse ricevuto notizia della convocazione in altro modo). Sul punto, i Giudici di legittimità hanno sostenuto che la “chance” non deve essere valutata in relazione alla concreta possibilità del danneggiato di essere selezionato, cioè in relazione al risultato atteso, ma, viceversa, in relazione alla perdita della possibilità di conseguire il risultato utile. Tant’è che, sempre secondo gli Ermellini, non è il risultato perduto, ma la perdita della possibilità di realizzarlo l’effettivo oggetto della pretesa risarcitoria. In tal senso, non avendo la sentenza impugnata deciso in sintonia con la costante Giurisprudenza di legittimità – particolarmente rigorosa quanto all’onere di allegazione e di prova gravante sul danneggiato, allo scopo di non rendere evanescente il legame tra il comportamento illecito e il risultato che si sarebbe potuto ottenere -, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance sulla base della mera allegazione, da parte del candidato, del titolo di studio che lo abilitava a partecipare alla selezione, in mancanza della prova della sussistenza, nella propria sfera giuridica, di una seria e apprezzabile possibilità di conseguire il risultato atteso. Infatti, sempre secondo il ragionamento logico e giuridico espresso dalla Corte di Cassazione, sebbene l’onere probatorio si attenui rispetto alle ipotesi in cui sia stato chiesto il risarcimento del danno da perdita definitiva del bene della vita, detta attenuazione, non può concretizzarsi in una pretermissione che riguardi gli elementi costitutivi della fattispecie, di modo che la sentenza del Giudice di merito non si è sottratta al rimprovero di aver liquidato equitativamente il danno da perdita di chance al danneggiato, senza accertare che ricorresse l’an debeatur (ovvero, senza accertare che il candidato avesse, nella sua sfera giuridica, la chance di conseguire il risultato sperato e, quindi, di essere selezionato, all’esito del concorso).


 

Il compenso corrisposto dalla società sportiva al procuratore del calciatore costituisce un fringe benefit.

Aprile 20, 2022

Con recente Ordinanza n. 11337/2022, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate, è tornata nuovamente sulla questione relativa alla natura dei compensi corrisposti direttamente da una società sportiva al procuratore del calciatore professionista (sulla falsariga della precedente Ordinanza resa sempre sul punto n. 7377/2020 del 17/03/2020), affermando che gli stessi sono fringe benefit (ovvero, quei benefici accessori e/o compensi in natura, al pari di quelli che, nel mondo aziendale, sono finalizzati a soddisfare diverse esigenze dei lavoratori, come ad esempio l’uso di un’autovettura o di un telefono cellulare aziendale, abitazioni, concessioni di prestiti o finanziamenti aziendali a tassi agevolati, etc.) e, dunque, concorrendo tali somme a formare il reddito da lavoro dipendente da assoggettare a tassazione ai fini Irpef, il medesimo calciatore deve tenerne conto nella sua dichiarazione dei redditi ai sensi dell’art. 51 (Determinazione del reddito di lavoro dipendente) del DPR 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi). Da un punto di vista strettamente tributario, l’orientamento della Suprema Corte è in linea con la tesi portata avanti dal Fisco negli ultimi anni, secondo cui, a fronte del particolare rapporto di lavoro subordinato che lega la società sportiva al calciatore, l’onere del compenso al procuratore per la prestata consulenza nella preparazione del contratto di lavoro tra detta società e il giocatore – in assenza di un incarico diretto – avviene nell’interesse esclusivo, o comunque nell’interesse prevalente, del medesimo calciatore piuttosto che del club sportivo.  In tal senso, accertando la sussistenza di una componente retributiva “in natura” tassabile ai sensi dell’art. 51, comma 1, del TUIR rispetto a quella ordinariamente corrisposta al giocatore per lo svolgimento dell’attività sportiva, atteso che, in pratica, la società di calcio si accolla direttamente e a proprio carico il compenso dovuto dal calciatore al procuratore (quanto sopra in forza del principio tributario secondo il quale ogni somma che il lavoratore riceva dal datore di lavoro o comunque sia in qualsiasi modo riconducibile al rapporto di lavoro subordinato intrattenuto con il datore di lavoro concorre a formare il reddito imponibile ai fini fiscali). Del resto, la natura civilistica del rapporto lavorativo instaurato tra l’atleta e la relativa squadra di calcio, in virtù dello stipulato contratto di prestazione professionistica, riconduce detto rapporto negoziale entro l’ambito della subordinazione, cosicché vi rientrano nelle connesse componenti reddituali anche tutti quei “benefici reali” (elementi aggiuntivi alla retribuzione ordinaria) goduti dal calciatore, tra cui, appunto, il compenso corrisposto dalla società sportiva al procuratore (soprattutto quando, a liquidare integramente quest’ultimo, sia solamente la società nonostante che la prestazione del procuratore non risulti resa nell’esclusivo interesse della stessa). Quanto sopra, con la conseguenza, oltre che dell’assoggettamento ad imposizione Irpef di detto fringe benefit in capo al calciatore, altresì dell’obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte da parte della società di calcio che abbia materialmente corrisposto al procuratore il compenso pattuito.