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Beni destinati all’esercizio di impresa e scioglimento della comunione coniugale. Diritto di credito del coniuge non imprenditore.

Maggio 27, 2022

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ., SS.UU. 17/05/2022, n. 15889) si sono recentemente pronunciate sul tema delle sorti dell’impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi – costituita dopo il matrimonio e ricadente nella cosiddetta comunione de residuo (ovvero la comunione nella quale rientrano quei beni che non fanno parte della comunione dei coniugi fintantoché, marito e moglie, restano spostati ma che, viceversa, devono essere divisi non appena questi ultimi si separano) – al momento dello scioglimento della comunione legale. Sul punto, i Giudici di legittimità hanno sostenuto che all’altro coniuge non imprenditore spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, e al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data. La controversia di merito avente ad oggetto il decisum reso dalla Suprema Corte ha riguardato il caso di una moglie che ha convenuto in giudizio l’ex marito con il quale ha costituito, in costanza di matrimonio, una società per il commercio di macchine industriali, della quale era essa stessa socia (seppure per una quota di partecipazione sociale inferiore a quella del coniuge). Nel corso del tempo, infatti, i coniugi avevano acquistato plurimi beni immobili, tanto che, a seguito dell’intervenuta pronuncia di separazione giudiziale ad opera del Tribunale di primo grado, si sarebbe dovuta – ad avviso della moglie – ritenere sciolta la comunione legale, con la conseguenza che gli immobili acquistati erano da considerarsi caduti “ipso iure” (con conseguente diritto di comproprietà di quest’ultima sui medesimi e su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%). Non solo. Facendo riferimento all’art. 178 del Codice civile – secondo il quale i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, nonché gli incrementi, si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento -, la moglie ha sostenuto di essere altresì comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge, ivi compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature, nonché di qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente all’atto dello scioglimento della comunione, oltre che delle quote della società. Cosicché, sulla base di tale premessa, la moglie ha chiesto la divisione di tutti i beni aziendali intestati al marito, nonché l’accertamento degli utili dal medesimo percepiti e percipiendi, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati successivamente all’intervenuto scioglimento della comunione legale. Il marito, costituitosi in giudizio, ha resistito all’avversa domanda promossa dalla moglie, invocandone il rigetto ed eccependo altresì l’avvenuto acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali, e delle costruzioni su di essi insistenti. Quest’ultimo, inoltre, ha dedotto che ove fosse stata condivisa dal Giudice di merito la prospettazione avversaria, occorreva tener conto che l’azienda da lui esercitata, fin dal momento dello scioglimento della comunione legale, presentava un’esposizione per passività ammontante a circa quattrocento milioni di lire e che, anche sulla proprietà dei beni immobili acquistati, pendeva una posizione debitoria di cento milioni di lire. Sulla base di tale esposizione dei fatti, il marito ha chiesto, quindi, la condanna della moglie al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi. All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito, con sentenza non definitiva, ha dichiarato l’attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, dovendosi applicare nella fattispecie, il disposto dell’art. 178 del Codice civile, rigettando la domanda riconvenzionale di usucapione formulata dal convenuto, difettandone i relativi presupposti. Con la suddetta sentenza, il Tribunale ha disposto poi la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali (nel corso della quale sono state emesse altre due sentenze non definitive) fino alla sentenza definitiva con la quale è stato approvato, poi, il progetto divisionale dei beni. Avverso tutte le sentenze (quelle non definitive e quella definitiva) ha spiegato appello il marito (resistito con ricorso incidentale dalla moglie), di modo che la Corte di merito, non definitivamente pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado ha dichiarato, per effetto dello scioglimento della comunione “de residuo”, la titolarità in capo alla moglie di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale dal marito, durante il matrimonio, e non una situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla medesima comunione. Le Sezioni Unite, allora, investite della questione di massima importanza concernente la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa, ex art. 178 del Codice civile, e dirette ad accertare se, quest’ultimo, si riferisca ad un diritto reale ovvero ad un diritto di credito, una volta analizzata la dottrina e giurisprudenza recante il favore per l’una o per l’altra delle due rispettive tesi, ha optato a favore della natura obbligatoria dei beni in comunione de residuo, giacché tutelante le esigenze dell’impresa, sia dal lato del coniuge imprenditore che da quello dei creditori dell’impresa. Se appare legittimo, hanno sostenuto i Giudici di legittimità, rendere il coniuge non imprenditore partecipe degli eventuali vantaggi ed incrementi prodotti dall’attività dell’altro coniuge, quale contropartita del diverso apporto del primo al regime familiare, la nascita di una comunione ordinaria rischia tuttavia di vanificare in toto l’impegno in precedenza profuso dal secondo. Le regole gestorie della comunione, poi, finiscono per imporre che ogni scelta relativa ai beni aziendali non possa prescindere dal consenso dell’altro comunista, con il rischio di addivenire alla paralisi dell’attività imprenditoriale. Inoltre, ove all’esito della divisione, i beni comuni si rivelino non comodamente divisibili, gli stessi, in assenza della previsione di una causa di prelazione a favore del coniuge imprenditore, come invece previsto dall’art. 230 bis del Codice civile per l’impresa familiare, possono essere anche assegnati al coniuge non imprenditore – nel caso in cui nessuno dei condividenti ne faccia richiesta di attribuzione – e/o essere alienati a terzi ex art. 720 del Codice civile (nel caso, appunto, di immobili non divisibili), con conseguente rischio di dissolvimento dell’impresa. Tutto ciò, senza considerare – ha proseguito ancora la Suprema Corte – le esigenze di tutela dei creditori dell’impresa, i quali, hanno fatto affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore e che, appena intervenuto lo scioglimento della comunione legale, rischiano di vedere la garanzia patrimoniale del loro credito ridotta del 50%, in ragione della insorgenza del diritto di comproprietà in favore del coniuge non imprenditore; analoga difficoltà che si pone anche nel caso in cui, lo scioglimento della comunione legale, sia determinato dal fallimento del coniuge imprenditore posto che, in tal caso, nell’attivo fallimentare sarebbe inserito solo il 50 % dell’azienda, essendo evidentemente compromessa o fortemente impedita ogni possibilità di prosecuzione dell’attività in pendenza della procedura concorsuale (dato che quest’ultima sarebbe tenuta a fare i conti con la concorrente contitolarità e gestione spettante al coniuge non imprenditore). Su tali basi e anche in considerazione della normativa codicistica in materia, le Sezioni Unite della Corte hanno deciso di prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti, dei proventi e dell’autonomia gestionale (quanto all’impresa) in capo all’altro coniuge (nelle ipotesi previste dall’art. 178 del Codice civile), evitando un pregiudizio per le ragioni dei creditori e consentendo così la sopravvivenza dell’attività imprenditoriale, senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.



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